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Monday 08 August 2022
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S. Paolo e i giovani PDF Stampa E-mail

Nelle sette lettere che sono sicuramente attribuibili a Paolo non ci sono menzioni specifiche riguardanti i giovani. Se però volgiamo la nostra attenzione alle cosiddette Lettere pastorali (1-2 Timoteo e Tito), che potrebbero essere opera sua nella vecchiaia o più probabilmente di un discepolo, troviamo indicazioni piuttosto interessanti.
Anzitutto è la figura stessa di Timoteo ad essere chiamata in causa. Paolo si rivolge a lui con la benevolenza e l’apprensione di un uomo anziano che guarda al giovane collaboratore con sentimenti di paternità (in 1Tim 1,1 lo chiama “vero figlio mio nella fede”), vuole rassicurarlo e al tempo stesso istruirlo su ciò che un uomo chiamato alla guida di una comunità deve sempre avere presente.
Molti dei consigli di Paolo sono connessi al ruolo che Timoteo esercita, altri invece sono legati al suo essere giovane ed è appunto di questi che vogliamo occuparci.
Ecco come gli si rivolge l’apostolo: “Nessuno disprezzi la tua giovane età, ma sii di esempio ai fedeli nel parlare, nel comportamento, nella carità, nella fede, nella purezza” (1Tim 4,12). Ricordiamo, anzitutto, che nella società in cui vive Paolo l’anzianità gode di grande rispetto e al contrario si guarda con sospetto verso i giovani per la loro mancanza di esperienza.
In un mondo dove il sapere si acquisiva quasi esclusivamente con l’insegnamento orale, era naturale considerare la sapienza il frutto di una lunga vita passata a ricevere nozioni. Paolo, però, invita Timoteo a non crucciarsi della sua poca esperienza, ma a dare un buon esempio alle persone che lo circondano.
Questo particolare è piuttosto insolito: di solito sono gli anziani presi come esempio, qui invece è un giovane che deve offrirsi come modello di virtù anche a coloro che hanno più esperienza di lui. Ed ecco allora che elenca gli ambiti in cui Timoteo deve eccellere. Anzitutto il parlare: Paolo non era un buon oratore, quindi difficilmente qui si riferisce all’abilità nei discorsi, alla eloquenza, quanto piuttosto al buon uso della parola.
Egli sa bene che l’ardore giovanile può portare ad essere sfacciati e a non avere riguardo per chi sta di fronte, anche a rischio di ferirlo. Altrove (2 Cor 2,6-8) Paolo esprime delicatezza nel tono da usare quando si rimprovera qualcuno, per non correre il rischio di mortificarlo, invece di incoraggiarlo.
Il secondo punto preso in esame è quello del comportamento in generale, perché non bastano le buone parole, occorre anche una condotta corrispondente nei fatti. Ricordiamo che una delle critiche che veniva rivolta a Paolo era proprio quella di essere un maestro inflessibile quando scriveva le sue lettere, ma poi di persona non sapeva destreggiarsi con altrettanta abilità (2 Cor 10,10). Ciò che invece raccomanda a Timoteo è di essere maestro anzitutto con l’esempio.
Con il terzo e quarto aspetto si toccano due temi strettamente correlati tra loro, carità e fede. La carità è il termometro che rivela lo stato della fede. Ma dobbiamo anche ricordare come i giovani, molto spesso, siano inclini a slanci di generosità che se non sono accompagnati da una fede radicata rischiano di spegnersi quando viene a mancare l’entusiasmo iniziale. E infine Paolo conclude con un accenno alla purezza.
È difficile tradurre questo termine nel linguaggio corrente, ma forse la parola che si adatta meglio è “coerenza”, vale a dire la qualità di una persona che conforma tutta se stessa verso uno stile di vita. Policarpo, un vescovo che scrisse pochi anni dopo la morte di Paolo, riteneva che questa fosse la prima virtù dei giovani (Fil 3,5) e in questa affermazione c’è molta saggezza. È facile vedere come alcuni giovani dei nostri oratori o gruppi rispondano con il cuore ma senza la ragione, oppure con il senso del dovere ma non l’affetto. Una persona è autentica quando riesce a fare unità in se stessa e a rispondere in maniera univoca. Come ricorda Paolo ai credenti di Corinto, in Gesù non ci fu il “sì” e il “no”, ma soltanto il “sì” (2 Cor 1,19).
Questi, dunque, i consigli che Paolo fornisce per un giovane ormai pronto ad assumersi le proprie responsabilità nel mondo.
E per quelli che ancora vivono tra le mura della loro casa paterna? Anche per loro c’è qualche suggerimento, che prende spunto dalla reciprocità dei rapporti familiari. “Voi, figli, obbedite ai vostri genitori in tutto; ciò è gradito al Signore” (Col 3,20). Verbo scomodo, quello dell’obbedienza, ma Paolo ci tiene che nelle case cristiane tutto avvenga secondo rispetto e sottomissione: delle mogli verso i mariti, dei figli verso i genitori e degli schiavi verso i padroni.
Nella figura dell’autorità egli vede una presenza divina e così all’obbedienza degli uni deve corrispondere il prendersi cura degli altri.
Ai padri, infatti, dice così: “Non esasperate i vostri figli perché non si scoraggino”. Anche qui occorre ricordare che al tempo di Paolo i diritti del padre di famiglia nei confronti degli altri membri della casa erano pressoché illimitati, con potere di vita e di morte.
Il principio di reciprocità suggerito da Paolo doveva suonare rivoluzionario per molti e stabilire che il padre doveva limitare i rimproveri ai figli, per il loro bene, era un segno di grande apertura mentale che contrastava con la prassi del padre-padrone. L’apostolo, in tal modo, ne ha per tutti, per i padri e per i figli. Ma viene dunque naturale domandarsi: c’erano anche dei giovani ad ascoltare Paolo o soltanto persone adulte?
La testimonianza degli Atti degli apostoli ci assicura che il suo uditorio era variegato. A Troade Paolo protrasse un incontro fino a mezzanotte e un giovane di nome Eutico che ascoltava appollaiato su una finestra si addormentò e precipitò dal terzo piano (perenne monito ai predicatori di non dilungarsi troppo…). Paolo intervenne prontamente risuscitando il ragazzo e probabilmente ebbe un nuovo discepolo (At 20,9-12). La predicazione dell’apostolo avveniva ordinariamente dentro case private e quindi è lecito pensare che lì si radunasse tutta la famiglia, giovani compresi.
Probabilmente Paolo non ha mai praticato qualcosa di simile alla nostra pastorale giovanile, ma nel concreto si è dato da fare perché anche persone che ancora non avevano raggiunto la pienezza della maturità potessero progredire nel cammino della fede fino alla sua pienezza. È indicativo quanto egli dice di se stesso: “Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino” (1 Cor 13,11). Nessuna nostalgia del passato, quindi, quanto piuttosto il desiderio di crescere come uomo in tutto, pertanto anche nella fede. Il vanto dell’apostolo al termine della propria missione sarà quello di avere forgiato dei cristiani adulti, in grado di camminare sulle proprie gambe, riconoscenti verso colui che li ha formati, ma liberi in Cristo.


Don Gian Luca Carrega

 
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